The Voice
Alla 82ª Mostra del Cinema di Venezia ha vinto il leone d’argento The Voice of Hind Rajab, il nuovo film di Kaouther Ben Hania, co-produzione tunisina e francese. Un film che non si affida a immagini forti o scene di guerra: perché ciò che basta, e che basta a devastare, è una voce. Quella reale, registrata, di una bambina di Gaza di cinque anni che chiede aiuto.
“Venitemi a prendere”, ripete Hind. Non chiede “salvatemi”, perché non conosce il significato della parola “guerra”. Non comprende. Crede che i parenti in macchina stiano dormendo. Poi, piano piano, capisce. Capisce che sta parlando con volontari al telefono, e che quei volontari — operatori della Mezzaluna Rossa — non possono fare altro che attivare un iter di salvataggio e nel frattempo ascoltarla, consolarla, pregare con lei. Un iter che si rivela stritolato dalla burocrazia, che invece di spalancare un corridoio umanitario, lo fa sbriciolare in una serie di passaggi inutili.
La distanza tra Hind e l’ambulanza è di otto minuti secondo Google Maps. Ma quegli otto minuti diventano ore, mentre la piccola attende sola, viva accanto ai morti, nel buio, nel terrore. E intanto i volontari — impersonati da attori, in una finzione ridotta all’osso — cercano di fare l’unica cosa possibile: essere presenti con la loro voce, chiamare, attendere autorizzazioni, aspettare risposte.
Il cuore del film non è la ricostruzione spettacolare degli eventi, ma il contrasto tra urgenza umana e lentezza istituzionale. Nessuna scena esterna, nessuna esplosione, nessuna azione. Solo due uffici, divisi da un vetro. Solo sguardi, tensione, parole sussurrate.
L’unico momento realmente “ricostruito” è quello in cui un operatore della centrale della Mezzaluna Rossa, con un pennarello, disegna su quel vetro trasformato in lavagna il meccanismo burocratico che dovrebbe autorizzare l’invio di un’ambulanza in zona di fuoco.
Ma quel disegno, semplice e visivamente efficace, si rivela una spirale kafkiana, che porta alla paralisi e alla tragedia mettendo in evidenza il paradosso che gli operatori sanitari a Gaza vivono ogni giorno: quello di avere le competenze, i mezzi, la volontà di agire, ma dover sottostare a una catena di permessi, check-point, autorizzazioni spesso mai concesse in tempo.
Un’ambulanza pronta non basta. Serve il permesso di passare.
Quando finalmente arriva il via libera, dopo ore di attesa, per un momento lo spettatore spera. Ma nel frattempo la strada è crollata, i detriti bloccano l’accesso. Gli operatori sono costretti a deviare dal corridoio autorizzato.
Il protocollo è rotto. I soccorritori diventano “fuori procedura”. L’ambulanza viene attaccata. I due paramedici muoiono. Non torneranno. E nemmeno Hind, la bimba di cinque anni.
La richiesta di aiuto è stata ascoltata. Ma non è bastato.
La regista non ha voluto raccontare la guerra con immagini scioccanti, né spettacolarizzarla. Ha scelto il contrario: mettere in scena l’invisibile. Il dolore burocratico, quello che non si vede ma che uccide con lentezza, con precisione, con indifferenza.
La sua domanda iniziale è stata: “Come reagiscono gli operatori della Mezzaluna Rossa quando una bambina chiama e chiede aiuto?”. E proprio da lì parte il film: da una chiamata registrata come tante, come tutte. Come avviene in ogni centrale d’emergenza. Ma questa chiamata, questa voce, rimane scolpita.
È una voce che non chiede vendetta, non accusa, non grida. Una voce che crede ancora nel mondo. Che dice solo: “Venitemi a prendere”. Una voce che attraversa le lingue, le distanze, le ideologie. E ci parla.
Ciò che resta è una forma di speranza. Una chiamata alla responsabilità collettiva. Il film non cerca eroi, non cerca colpevoli singoli, ma invita lo spettatore a riflettere sul funzionamento di un sistema dove la burocrazia può diventare più letale delle bombe.
La distanza tra Hind e la salvezza era di 8 minuti. Ma in quel contesto, 8 è diventato ∞: il simbolo dell’attesa senza fine, dell’assurdità di un mondo che si ferma davanti a una firma mancante, a un checkpoint non autorizzato. Otto minuti che si dilatano fino a coincidere con la morte. Con l’assurdo. Con l’inazione. E questo film è un atto di accusa contro un sistema che, di fronte all’urgenza di salvare vite umane, si perde in meccanismi burocratici senza senso.
Un paradosso crudele: chi può salvare, non può agire. Chi ha bisogno, non può aspettare.
Oggi questo film accompagna, con la sua forza silenziosa, la testimonianza del medico di Gaza che è stato raccolto per voi. Ci ricorda che, nella guerra moderna, non è solo il fuoco a uccidere. È anche l’attesa. È anche la procedura.Ed è proprio questo il punto che ci interpella. Non solo come spettatori. Ma come esseri umani.
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