I am Angela MariaTHE VOICE OF HIND RAJAB
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The Voice of Hind Rajab (2025) scritto e diretto da Kaouther Ben Hania, produzione tunisina e francese, presentato alla 82ª Mostra del Cinema di Venezia il 3 settembre 2025.

THE VOICE, perché la vera protagonista non è un volto né un personaggio di finzione, ma quella voce reale, registrata dalla Mezzaluna Rossa Palestinese. Quando chiami un numero d’emergenza, la tua voce diventa traccia indelebile: la voce di Hind, fragile e candida, la voce di una bambina di cinque anni, resta scolpita nel cuore anche se parla in arabo, in una lingua che non capisci. I sottotitoli in italiano o in inglese diventano quasi superflui: la sua supplica dolce, ingenua, continua a vibrare nell’anima.

Hind non chiede “salvatemi”, ma ripete con naturalezza infantile “venitemi a prendere”, perchè non capisce I meccanismi della guerra. La sua voce scopre, a poco a poco, l’orrore causato dai carri armati israeliani: d’apprima crede che la cuginetta dorma sul sedile della macchina; “Anche gli zii, tutti dormono”, dice lei. Poi, mentre il sangue impregna i suoi vestiti capisce che non è il suo ma quello dei parenti ormai cadaveri. Capisce poco a poco, accompagnata dalle voci dei volontari della Mezzaluna Rossa che l’accompagnano al telefono in un calvario non voluto e nemmeno meritato. “Ho paura del buio, venitemi a prendere”, ripete all’infinito.

La scena si svolge in due uffici della centrale della Mezzaluna Rossa: da una parte Hind, con la sua voce che attraversa il telefono, dall’altra gli operatori, quattro attori, che in una sapiente finzione cercano disperatamente di organizzare un’ambulanza. Ma il corridoio umanitario richiesto appare come una chimera: troppi passaggi istituzionali, troppa burocrazia. Gli otto minuti segnati da Google Maps, che separano Hind dalla salvezza, diventano un’agonia interminabile. In un’unica scenografia — due uffici divisi da un vetro diventato una lavagna improvvisata — il film riesce a raccontare l’inimmaginabile lentezza dell’iter burocratico, con una chiarezza visiva che diventa sconvolgente.

Non c’è una sola scena esterna, non si mostra violenza: tutto il dramma scorre dai volti degli attori, dall’intensità dei loro sguardi, dal silenzio carico di tensione e umanità. Il pubblico in sala rimane sospeso, coinvolto dal dolore universale che quella storia mette a nudo, e tutti si trovano a chiedersi: perché?

Hind non ha volto, ma la sua voce è quella di una bambina che chiede una cosa semplice, ovvia: “venitemi a prendere”. Non chiede di essere salvata, non conosce i giochi contorti della guerra. Noi, invece, conosciamo fin dall’inizio che non ci sarà un finale felice. Ma per tutti quei 90 minuti speriamo. Speriamo che il mondo non sia così atroce da non venire a prenderla. E scandalizza il fatto che una bambina, lì per caso, sommersa di cadaver,i debba resistere finché la Croce Rossa, l’Esercito, i Ministeri, i passaggi intermedi non diano il via libera a un’ambulanza a soli otto minuti da lei. E quel numero — 8 — diventa un ¥, il simbolo del tempo infinito che separa chi ha bisogno da chi può aiutare.

Quando finalmente arriva il via libera, molte ore dopo, per un attimo si accende una speranza. Ma la strada è sbarrata: detriti, macerie, un’ambulanza che non può passare. L’ansia cresce. “Basta girarci attorno”, pensi. Ma poi scopri che quella deviazione costa la vita ai due operatori, veri angeli in missione per salvare un’innocente bimba. In quel momento impari che un corridoio umanitario può essere taglia extra small. Quando si perde il buonsenso… in guerra non sono le prigioni a riempirsi, ma i morti. E ciò che ferisce davvero è non riuscire a comprendere la ragione di tanto accanimento, di tanta follia.

Questo film comunica la tragedia umana senza ricorrere a scene di guerra, a violenza esplicita che sarebbe solo spettacolo. Riesce a restituirci la crudeltà senza effetti speciali, perché la forza del film è nel suo essere intimamente umano.

Sul red carpet, gli attori camminano vestiti di nero lutto. L’unico sorriso è quello nel ritratto di Hind, una bambina che si fidava del mondo, di una famiglia che l’aveva accolta con amore. La regista Kaouther Ben Hania sfila in abito nero, ma il collo e le spalle sono adornati da un ricamo dorato: un richiamo, forse voluto, all’Usekh di Cleopatra, quel collare sacro/protettivo, che diventa simbolo visivo di una maternità universale, di un desiderio di protezione impossibile.

Mi inchino a Kaouther Ben Hania: ha raccontato questa tragedia con affetto, delicatezza e sensibilità femminile, restando lontana da bandiere politiche o fazioni. Ha scelto la follia della guerra come tema universale — al di là dei confini, dei colori politici e delle grate ideologiche.

E profonde ammirazione va agli attori, ai loro sguardi, al dolore personale che hanno saputo rendere universale. Forse è per questo che in sala abbiamo ritrovato dentro di noi dolori antichi, il buonsenso perduto e quel coinvolgimento che è sfociato in un applauso lunghissimo, destinato a rimanere nel tempo.

Sono convinta che questo film conquisterà il Leone d’Oro — e forse l’Oscar —, perché mette in scena l’umanità calpestata e tradita, come valore imprescindibile. È un grido contro ogni guerra, contro ogni follia che non può, non deve essere accettata.

 

Photo by Angela Maria Marchetti

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